The category is… TRANS VS TERF

Nell’ultimo periodo, anzi negli ultimi 7 mesi circa, mi sono avvicinata al tema della transessualità. Premetto che sono una donna cisgender e che non ho mai conosciuto una persona transgender nel corso della mia vita, almeno finora.

Prima di continuare a dire tutto quello che sto per dire, mi fa piacere riassumere, molto brevemente, e per ragioni di chiarezza, cosa intendo quando uso termini come cisgender e transgender. Una persona cisgender è una persona, come me, per cui esiste corrispondenza tra sesso biologico e identità di genere. Una persona transgender è invece una persona in cui queste due cose non corrispondono, ovvero il sesso con cui si nasce non corrisponde al genere con il quale ci si identifica.

Come dicevo, mi sono avvicinata alla tematica negli ultimi mesi, e questo perché la scorsa estate è esplosa una polemica social, diventata poi mainstream, di cui forse avrete sentito parlare. La polemica è stata scatenata dalla scrittrice J.K. Rowling, che ha più volte affermato l’importanza del sesso biologico nell’assegnazione del genere, arruolandosi come esponente di quel movimento che viene definito femminismo radicale trans-escludente, o TERF. In risposta alle affermazioni discriminatorie della Rowling è intervenuta prontamente la comunità trans, che pure ha utilizzato toni aggressivi in difesa dei propri diritti.

Faccio riferimento a quell’episodio perché, il dibattito che si ne è seguito è così polarizzato che è stato, per me, quasi impossibile capire di cosa, esattamente, si stesse parlando. Per farla breve, il punto su cui si battono le TERF è “chi ha un pene non è una donna”, e la risposta trans è “voi siete donne solo perché avete l’utero”. Probabilmente nessuna delle due parti vuole dire questo, ma è questo quello che, in conclusione, emerge. Quindi, e proprio perché ero sicura che non potesse essere questo il giusto risultato di una questione così delicata, ho speso 7 mesi a leggere opinioni dell’una e dell’altra parte, per provare a capirci qualcosa.

Ora, forse io devo anche ringraziare la lotta social che si è creata, perché mi ha permesso di approfondire. Ma non tutte le persone sono come me. La maggior parte si sarà probabilmente fermata a leggere dell’accaduto, scegliendo una fazione o l’altra. E è questa un’altra delle cose che proprio non mi piace: le fazioni. I discorsi e le narrative eccessivamente polarizzate finiscono inevitabilmente per accentuare le divisioni. E credo che questo non faccia bene a nessuno. Ma proprio a nessuno. Né a chi si trova agli estremi, né a chi si trova nel mezzo.

Un dibattito, per me, è produttivo e si conclude quando finalmente le parti riescono a uscire dalle proprie barricate e ad empatizzare l’una con l’altra. Con molta probabilità non siamo ancora a quel punto. Tuttavia, nel mio piccolo cervello, forse queste due fazioni hanno fatto finalmente pace. Ragion per cui desidero spiegare come ho fatto io, donna cis etero, ad arrivare ad un’armonia di pensiero in un caos di opinioni.

Come ho detto, per me l’empatia è fondamentale quando cerco di comprendere una posizione. Motivo per cui ho provato ad empatizzare con entrambe le parti. È molto difficile e ci ho messo molto tempo.

EMPATIA TERF

Ho cominciato con l’empatia verso il femminismo radicale che si dice appunto trans escludente. Questo perché anche io sono una femminista radicale e comprenderne le posizioni è più facile, per il tipo di esperienze che hanno caratterizzato e caratterizzano la mia vita.

La conclusione a cui sono arrivata è semplice. Il patriarcato – che è caratteristica dominante della società in cui viviamo – per secoli, se non per millenni, ha attribuito un solo ruolo alla donna, quello di madre. Ragion per cui la capacità riproduttiva, il fatto di avere un utero e di essere “mestruanti”, ha definito a lungo cosa vuol dire essere donna. Altrettanto lunga è la battaglia femminista per dimostrare che, passatemi l’espressione, “oltre la gonna c’è di più”. Insomma da almeno 60 anni cerchiamo di far capire al mondo che la nostra esistenza non si limita alla riproduzione, che essere donne non vuol dire solo avere un utero.

La conseguenza più logica a quanto appena detto dovrebbe essere: qualsiasi persona che aiuti a sdoganare il dogma che da secoli associa alla donna il ruolo di madre, che attribuisce all’utero un’importanza primaria, è un alleato. Eppure non è così e le donne trans, le alleate più scontate in questa battaglia, in alcuni casi e da alcune donne, sono ancora percepite come un nemico. Ed ecco che il grido femminista più rivoluzionario – ho un utero ma non voglio che sia l’utero a definirmi – si trasforma in contraddizione quando è trans-escludente.

Ma perché ciò accade? What’s the trick?

The trick is: il patriarcato non si vede, anzi si nasconde, si insidia negli angoli più bui della nostra coscienza. E, nonostante si lotti da anni per dare prova del contrario, una piccola parte dentro di noi, donne cis, attribuisce, forse anche solo inconsciamente, molta importanza all’utero nella definizione dell’esperienza incredibile che è essere donna.

Ragion per cui, è credo che sia questo che si nasconda nel cervello di chi è trans escludente, si ha paura. Paura che, anche nel più grande sforzo di emancipazione, nel mostrare al mondo l’inconsistenza del binomio donna-madre, gli uomini si approprino di qualcosa che appartiene alla donna, l’ennesima. Nello specifico si teme che, appropriandosi del genere, si approprino poi degli spazi e dei diritti per cui si è dovuto a lungo combattere.

In altre parole, il pene, il fallo, da tempo immemore simbolo di tutto ciò che è patriarcato, viene percepito come una minaccia.

Ed è qui che c’è il cortocircuito. Proprio qui che bisogna empatizzare con l’altra parte, per smettere d’avere paura, per liberarsi, finalmente, di tutte le catene che ci dividono e ci riportano indietro.

EMPATIA TRANS

Come si può immaginare, è stato molto più difficile empatizzare con la comunità trans. E con questo intendo che è stato più difficile mettersi nei panni di chi non si rispecchia con il sesso con cui è nato. Ciò detto, non voglio portarmi dietro l’ira di chi vive tutti i giorni questa realtà. Spero che dire di non capire la transessualità in modo intuitivo non venga percepito come un’offesa. E se così fosse me ne scuso, in anticipo.  

Quello che credo e che immagino è questo: in un mondo che si basa su una logica di tipo binario, per cui la risposta ad ogni cosa o è 0 o è 1, ci sono pochi strumenti per capire e per far capire cosa vuol dire essere una persona transgender.

Ad esempio, la prima cosa che ho capito leggendo del tema, è che il percorso di transizione (in questo caso da M a F) inizia quasi sempre con la terapia ormonale, ma non finisce per forza con l’intervento chirurgico. E qui, sarò sincera, all’inizio non capivo. Per capire sono state necessarie molte altre letture e una serie TV. Questo perché le storie le capisco meglio se romanzate. Soprattutto se si tratta di realtà ed esperienze che, per casualità, sono lontane dalla mia.

About POSE

Come dicevo, mi ha aiutato molto POSE, una serie TV ispirata al documentario del 1990 di Jennie Livingston, Paris Is Burning. POSE mette in scena lo sfarzo e l’eccentricità della “drag ball culture” newyorkese degli anni ’80 e ’90.

Per capire meglio cosa si intende per drag ball culture e per ball room si può guardare questo video

La prima cosa che salta all’occhio, inevitabilmente, è proprio lo spazio, la ball room, che gli esponenti di questa cultura, prevalentemente donne trans e omosessuali (di origine latina o afroamericana), sono riusciti a costruire nell’underground metropolitano newyorkese.

La prima idea che mi sono fatta delle ball room è stata questa: uno spazio in cui essere liberi e libere, in cui essere se stessi, con tutte le proprie forze. Questa idea viene rafforzata anche dalla trama e dai dialoghi.

In particolare, mi è rimasto impresso un dialogo tra due personaggi, Angel e Stan. Stan è un uomo sposato che ha appena cominciato a lavorare come impiegato in un ufficio nella Trump Tower. Angel è una donna trans, dalla bellezza intensa, che si prostituisce. Dopo un primo incontro, Stan sembra prendere una fissa per Angel che gli chiede, senza filtri e penitenze, cosa si nasconda dietro il suo interesse per lei.

Riporto lo scambio di battute, perché non sarei in grado di parafrasarlo.

Angel: “Di solito, quelli come te o sono gay e non lo ammettono o sono etero ma hanno troppa paura di chiedere alla moglie di farsi infilare un dito in culo. Tu cosa sei?”

Stan: “Io…  non sono nessuno.  Voglio quello che dovrei volere, indosso quello che dovrei indossare e lavoro dove dovrei lavorare. Non rappresento niente. Non ho mai combattuto in una guerra e probabilmente non dovrò mai farlo, perché la prossima ci ucciderà tutti. Posso comprare cose che non posso permettermi, il che significa che non sono mai veramente mie. Io non vivo. Non credo. Io accumulo. Sono un brand, “un ragazzo bianco della classe media”. Ma tu sei quello che sei anche se il prezzo da pagare è essere disinvitata dal resto del mondo. Sono io quello che porta una maschera, sono io il “travestito”. È sbagliato voler stare con una delle poche persone al mondo che non lo è?, avere una persona nella mia vita che so essere reale?”.

Lo scambio di battute è, per l’appunto, self explicative. O meglio, si spiega da solo.

E sembra tutto chiaro e bellissimo.

Dov’è, quindi, che si verifica il cortocircuito?

Nel tentativo di interpretare un mondo, una realtà, circoscrivendola. Che è quello che spesso accade, quando, con animo quasi feticista, si osserva una realtà ai confini del mondo, col desiderio di faci un giro, non per restare. Con l’invidia di chi vuole assaggiare la libertà senza, però, spezzare le catene. E guai che le due “realtà” si combinino.

Ed infatti lo stesso Stan proverà a “chiudere” Angel all’interno di spazi definiti e tratteggiati. Uscire da quegli spazi significa annullare l’autenticità dell’esperienza. Anzi, la rende pericolosa, strana, inaccettabile.

L’errore di limitare l’autenticità di queste esperienze ad uno spazio circoscritto (metaforicamente rappresentato dalle ball room) è sicuramente comune, frequente e comodo.

È quantomeno infantile, se non superficiale, pensare che esperienze simili abbiano modo di esistere solo all’interno di uno spazio circoscritto di libertà e gioia sfrenata, privo di condizionamenti o inibizioni sociali. Uno spazio al di fuori della realtà dove però la realtà regna sovrana.

Tutta questa digressione per dire cosa?, vi starete chiedendo. È semplice: per dire che una donna trans non esiste solo circoscritta in uno spazio. Una donna trans esiste e vive in ogni spazio. E questa realtà mi si è palesata come un pugno nello stomaco quando ho visto la protagonista della serie, Blanca, finire in cella, in una prigione di uomini. In quel momento ho capito che certe cose sono difficili da spiegare, ma quando le capisci sono semplici. E l’ho capito perché avrei solo voluto urlare: “Fatela uscire di lì, non è il posto giusto”.

Mi viene in mente un altro esempio, ancora ricollegato alla ball room, che pure mi ha aiutato parecchio a capire la posizione della comunità trans in merito alle dichiarazioni del femminismo radicale trans-escludente.

Una delle categorie più famose per cui si sfila alle ball room è “Realness”. Sfilare questa categoria ha l’obiettivo, appunto, di dimostrare, dare prova, ostentare quasi, il proprio essere donna.

Nel corso degli episodi, e a più riprese, le donne protagoniste hanno paura, “nel mondo fuori”, di essere un falso, “a fake”, motivo per cui sfilano, underground, per dimostrare il contrario. Da un lato, quindi, le ball room sono, senza alcun dubbio, uno spazio dove si può essere se stessi. Dall’altro, però, appare pure chiaro che non sono uno spazio di libertà. Libertà intesa, in questo caso, come libertà dal dover dimostrare per forza a qualcuno perché si è quello che si è. Al contrario, sono uno specchio della libertà che manca, purtroppo ancora oggi, “nel mondo fuori”. Un tentativo di rivalsa, una riproduzione “sotterranea” del mondo fuori, in cui però si sfila, e si viene riconosciute, per quello che si è, da una comunità che non è solo giudice, ma famiglia, casa. Proprio su questo punto incide POSE che, quasi alla fine della seconda stagione, grazie alle parole di un personaggio, spiega qual è il significato, lo scopo ultimo (e primo) delle ball room: “ricordare a noi stesse che non siamo sole”.

Ho parlato molto di POSE così che forse sia più facile (o forse perché per me è stato più facile) comprendere la rabbia di una comunità che deve costantemente dimostrare – in questo caso alla categoria di esseri umani da cui più ci si aspetta comprensione e si desidera un riconoscimento – di non essere un fake.

Così come pure ne si comprende la paura. Paura di non essere viste, di essere sole ai margini della società.

Queste riflessioni forse dovrebbero portare ciascuno di noi a chiedersi, non cosa voglia dire essere transessuale, ma cosa voglia dire essere donna.

WHAT IT MEANS TO BE A WOMAN?

La conclusione a cui sono giunta è che esistono modi diversi di essere donna. Che ogni esperienza è diversa, eppure uguale. Che, in definitiva, non esiste un modo “più reale” di essere donna. Così come non ne esiste uno falso. E che la paura è un ostacolo alla comprensione, da un lato e dall’altro.

Se infatti, non ci si può aspettare che tutti siano predisposti alla comprensione intuitiva di cosa voglia dire essere donna trans, dall’altro non è giusto pretendere alcuna spiegazione. Come sempre la risposta è nel mezzo.

“Ci vuole lavoro, motivazione, sacrificio per essere una donna”.

– Elektra Abundance


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