“A volte temo che non sarei così femminista se avessi le tette più grandi”

“A volte temo che non sarei così femminista se avessi le tette più grandi”

Da quando ho visto Fleabag non riesco a smettere di pensare a quest’affermazione.

Proverò a spiegare perché, anche se mi sembra estremamente complesso.

Siamo, ad oggi, strette in un paradosso che ci rende vittime e carnefici di noi stesse.

Da una parte, andiamo fiere della possibilità, finalmente, di esprimere la nostra sessualità in 4k o, in alternativa, sul palco di Sanremo, twerkando come Miley Cyrus (anzi, un po’ meglio, ché Miley non twerkava poi così bene). Insomma, rivendichiamo il nostro corpo con orgoglio e protagonismo agitando i glutei e scuotendo le coscienze.

Dall’altra, ci sentiamo un po’ confuse e ci chiediamo in gran segreto, quasi in auto-censura, “ma quale corpo devo rivendicare?”.

Il mio o quello della Lamborghini?

Non è facile ammettere, neanche a noi stesse (soprattutto se ci definiamo femministe), che almeno una volta abbiamo guardato con invidia al culo di Belen o con ammirazione alle tette della Leotta (con tutto che SONO FINTEEEE!!! cit.).

La verità è che ci sentiamo tremendamente in colpa a desiderare di essere un po’ più simili a come i canoni estetici dominanti ci vorrebbero.

Perché noi i canoni estetici dominanti li combattiamo, tutti i giorni. E a buon motivo!

Dunque, siamo davvero sicure che quella che vediamo riprodotta costantemente (nei video musicali di Ariana Grande o sul profilo di Kim Kardashian, etc. etc.) rappresenti davvero e finalmente una riproduzione della nostra acquisita libertà di espressione, una riappropriazione femminile della sessualità?

Per quanto apprezzi il fascino e la bellezza di due glutei che si incontrano e si scontrano a ritmo di musica (“e il resto scompare”) non posso fare a meno di pensare che un’immagine simile risponde, ancora e sempre, alle esigenze del maschio.

Non possiamo ritenerci libere, tanto meno sessualmente, se, sempre e comunque, ci sentiamo spinte a riprodurre dei canoni estetici di sensualità ed eroticità standardizzati, maschili.

In altre parole, la donna rivendica la propria soggettività sessuale riproducendo lo stesso tipo di sensualità che di consueto la riduce ad oggetto.

Mi pare, dunque, che siamo semplicemente passate dall’essere oggetto a soggetto su un palcoscenico che segue ancora i copioni del patriarcato.

Il messaggio che più facilmente viene veicolato tramite la diffusione di questi gesti (la cui intenzione è comunque un genuino anelito alla riappropriazione, alla libertà) è che quella che guardiamo sia la sensualità “giusta”.

Per cui è normale che in un angolo del nostro cervello ci sia un piccolo neurone che urla “Vorrei il culo di Elettra” in stile particella di sodio dell’acqua Lete.

Qual è il punto di tutto questo lungo pippone? Il punto è che non c’è nulla di male se ogni tanto perdiamo una battaglia. La guerra la vince chi tiene pazienza.

Cosa possiamo fare nel mentre?

Sicuramente, iniziare a rivendicare, oltre al diritto ad essere sensuali, anche quello a scegliere e a scoprire come esserlo.

Finché alcuni argomenti rimarranno tabù, sarà molto difficile riuscire a rivendicare il nostro corpo così com’è. Tette piccole, grandi a pera a mela a banana. Culo sì, culo no. Capelli Panténe o capelli Sunsilk.

Il percorso verso la riappropriazione del nostro corpo e della narrativa sulla nostra sessualità è un percorso lungo e tortuoso.

Sicuramente ci può aiutare sapere che belle non si nasce, si diventa.

E io modestamente lo sono diventata (quasi).


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